
Luisa Stagi è professoressa associata di Sociologia all’Università di Genova e co-direttrice della rivista di studi di genere About Gender. Le abbiamo fatto alcune domande sul suo percorso di ricerca e di vita.
Professoressa Stagi, come sono nati il suo interesse accademico e, in generale, la sua progettualità sociale nel campo degli studi di genere?
Il mio interesse per gli studi di genere ha radici lontane che affondano nel femminismo. Per quanto riguarda invece About Gender, è una storia lunga: c’è stata una fase iniziale laboratoriale, poi la rivista, poi ancora l’associazione. L’incontro con Emanuela Abbatecola e Isabel Fanlo Cortés, è stato magico: noi siamo prima di tutto grandi amiche, poi condividiamo il coordinamento di AG. A Emanuela va tutto il merito di aver voluto a tutti i costi fare la rivista. A Isabel quello di aver conquistato l’insegnamento di introduzione agli studi di genere che tutte insieme teniamo ormai da anni. Ma non solo, di meriti ne hanno tanti: Isabel, per esempio, ha presieduto il Comitato Pari Opportunità dell’università di Genova, ed è stata promotrice, tra le altre cose, del doppio libretto universitario per gli/le student* trans*. Tutte insieme qualche anno fa abbiamo organizzato dei laboratori interdipartimentali tra storiche, linguiste, sociologhe, filosofe (per esempio c’era Luisella Battaglia), eccetera. Abbiamo cercato di coinvolgere tutti e tutte. Un passaggio fondamentale è stato il confronto con le femministe storiche genovesi, incrociando saperi, memoria e consapevolezze, collaborando, dialogando e anche emozionandoci insieme. Giulietta Ruggeri, per esempio, è stata ed è fondamentale nel nostro percorso. Solo dopo questo lungo e bellissimo cammino è nata la rivista. E un po’ però manca la parte laboratoriale: dal 2012, quando abbiamo fondato la rivista About Gender, abbiamo avuto meno tempo per dedicarci a questo tipo di seminari, che sono stati rimpianti da alcune delle partecipanti per la loro forma dialogica e di gruppo.
Si è però avviata, poco dopo la nascita della rivista, una fase seminariale nuova e aperta alla città. Ce ne vuol parlare?
Sì, i seminari al Ducale. Tre cicli, dal 2014 al 2016, sono nati dalla volontà di Luca Borzani, allora presidente della Fondazione Palazzo Ducale, che si era reso conto di quanto l’omofobia e l’eteronormatività fossero pervasive sul piano culturale nel nostro paese. Quelli svoltisi nel 2016 avevano come argomento A proposito di gender. Modelli familiari, ideologie, diritti, tematiche molto dibattute in questi anni. Le riflessioni conclusive le abbiamo svolte con Sara Garbagnoli e Federico Zappino. Ricordo con particolare emozione l’incontro con le teologhe Serena Noceti e Letizia Tomassone su Gender, religione, educazione: un dibattito aperto.
La sede di Palazzo Ducale è centrale a Genova e molto frequentata. Com’è andata con le centinaia di persone che affollavano le sale per ascoltare qualcosa che probabilmente non avevano mai ascoltato? C’è stato molto di quello che in genovese chiamiamo mugugno (brontolio, scontento)?
Ci sono state spesso alcune Sentinelle in piedi che intervenivano o che commentavano con “Non è vero niente” e altre amenità. Però tante persone, anche anziane, erano interessatissime e costituivano un pubblico fisso. Ricordo in particolare una signora mitica che, alla fine dei cicli di incontri, aveva assimilato il linguaggio queer e lo parlava con scioltezza argomentativa.
Poi la virata di Genova a destra… Cos’è rimasto di quanto avete realizzato?
Tutti i nostri incontri sono on line e hanno migliaia di visualizzazioni, questo senz’altro resta. Certo, è stato un passo indietro grave per la città vivere la prevalenza amministrativa da parte di chi ha come alleati i movimenti antigender. Quando è scaduto il mandato di Luca Borzani alla presidenza di Palazzo Ducale, un foglio di notizie genovesi ha montato una sorta di damnatio memoriae sul nostro percorso, con frasi del tipo “Finalmente non si parlerà più di gender, era una vergogna”, eccetera.
E la politica associazionistica com’è ora in città?
Arcigay ha ottenuto dal sindaco Bucci una nuova sede al Lagaccio (zona di Genova). Il sindaco si comporta in modo ambiguo: prima nega il patrocinio al Pride, poi ci va. Ha dato questa sede ad Arcigay, ma contemporaneamente il Comune non ha riconosciuto anagraficamente due madri lesbiche e ha impugnato la sentenza che dava loro ragione. Il movimento è diviso e personalmente a me questo dispiace molto. Ho contribuito, insieme a Lilia Mulas, un’attivista lesbica a cui ero molto legata e che è purtroppo scomparsa qualche anno fa, a fondare il Coordinamento Liguria Rainbow proprio perché ritenevamo necessaria l’unità.
Parliamo di cose faticose ma gratificanti, come il percorso di About Gender, la rivista di studi di genere da lei co-fondata insieme a Isabel Cortés ed Emanuela Abbatecola?
Da genovese ho avuto alcune remore iniziali: non amo lanciarmi subito oltre l’ostacolo. Sai come diciamo, no? Maniman (“stai attento”, “non rischiare”). Poi sono stata trascinata in questo percorso formidabile, che ci ha portato grandi soddisfazioni e che è frutto di un lavoro di un gruppo davvero magnifico. Abbiamo un Comitato scientifico dove ci sono i nomi più accreditati della materia a livello internazionale, Judith Butler compresa. È stato un momento incredibile quando ha fatto personalmente girare la call per il nostro numero sull’eteronormatività. Ci siamo accreditate a livello internazionale anche attraverso la mappatura attenta della produzione o “stato dell’arte” dei gender studies nel mondo. La Tavola Rotonda, a cura di Rita Bencivenga, che attualmente insegna al Trinity College di Dublino, ha svolto in modo capillare questo ruolo per anni. Di recente ha parlato di noi anche la rivista Forbes nel magnifico numero sulla pornografia curato da Mariella Popolla. Siamo anche state accreditate da Anvur in “fascia A” per l’area scientifico-disciplinare di sociologia dei processi culturali e comunicativi. Grande soddisfazione per chi è partita in sordina, volontaristicamente e utilizzando la formula open, liberamente scaricabile previa registrazione, attestandosi a poco a poco (maniman) in modo interdisciplinare su temi che fanno fatica ad entrare nel mondo accademico.
Qual è il vostro rapporto con i saperi militanti, che si sviluppano in modo fertile al di fuori delle griglie universitarie?
Ritengo che siano parte fondante del nostro progetto fin dalla sua fase iniziale e riconosco come valore un percorso intersecante con l’attivismo. Per questo abbiamo di recente inaugurato anche la sezione Trasformazioni, completamente dedicata ai contributi di chi fa politica queer, di chi viene dall’attivismo. Nell’ultimo numero, per esempio, voglio ricordare un intervento di Egon Botteghil, attivista antispecista.
Parliamo del suo percorso di sociologa all’interno dell’Università di Genova e anche, più in generale, del percorso dei gli studi di genere in Italia.
Per quanto riguarda la parte dell’insegnamento, condivido con le colleghe Fanlo Cortés ed Abbatecola il corso di Introduzione agli studi di genere, incardinato presso la Facoltà di Giurisprudenza e Servizio sociale. È un corso facoltativo per tutt* ed è scelto (sempre di più) da studenti provenienti da ogni corso di laurea. Ci occupiamo anche di dottorati di ricerca e sono sempre di più gli e le studenti appassionati di studi di genere che scelgono Genova per questo. Teniamo anche un laboratorio permanente con gli e le studenti, per continuare a lavorare sui temi dell’identità sessuale e identità di genere e sono tante tantissime le tesi su questi temi. Molti semi stanno germogliando. About gender fa anche parte della rete Gift, che raccoglie studiosi e studiose di genere di tutte le discipline. Cerchiamo di fare un uso attivo della necessità, di andare contro la diffusione di notizie false, di chi si oppone all’educazione di genere e di rendere strutturale il nostro campo di ricerca.
Lei hai anche un percorso personale di saggistica molto interessante. Il suo libro Food Porn, per esempio, che tratta dell’ossessione per il cibo in tv e nei social media, in una società che da un lato alimenta ideali di corpi a dieta e dall’altro esibisce l’ossessione per cibo e cucina. Ce ne vuol parlare?
Sto finendo di scrivere Food Porn 2, dove parlo, tra le altre cose, del fenomeno del mukbang, ovvero la circolazione di video in cui si mangiano in modo rumoroso cose strane. Una sorta di dimensione umoristica e carnevalesca del rapporto con il cibo. Mi occupo anche del ruolo del cibo prodotto ed esibito sui social durante il lockdown (tipo il pane). Un altro dei miei libri, scritto sempre con Sebastiano Benasso, si intitola Ma una madre lo sa?. In questo testo ci siamo occupati di disturbi alimentari e del fenomeno del mother blame, ovvero della colpevolizzazione delle madri per i disagi di figli e figlie nella società neoliberale.
Lei ha aderito, insieme alle colleghe Isabel Cortés ed Emanuela Abbatecola, alla campagna Da’ voce al rispetto e ha firmato il documento di lesbiche, trans, femministe e sostenitrici a favore del termine “identità di genere” nella legge Zan, pubblicato dal Manifesto. Cosa pensa della polemica di un gruppo di femministe su questo termine?
È una legge necessaria e la bagarre pubblica contro di essa è inaccettabile. Per quanto riguarda l’”identità di genere”, non capisco la svolta essenzialista da parte di chi dovrebbe sapere bene quanto è pericoloso e fuorviante parlare di istinti, come avviene per esempio nel caso della violenza maschile sulle donne. È importante tenere insieme omolesbobitansfobia, identità di genere e misoginia (concettualmente forse era meglio sessismo, ma vabbè). Lo abbiamo spiegato molto bene nel nostro ciclo di incontri sulla mascolinità egemonica: lo spazio pubblico mostra quali soggetti e corpi hanno o non hanno piena cittadinanza. Una buona legge ha il compito di tutelare chi subisce lo stigma e di prevenire la violenza e la discriminazione, è un primo passo per una svolta culturale che deve però passare attraverso l’azione educativa.
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