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Home Cultura

“Sale del ricordo”, la nuova raccolta poetica di Luca Baldoni: «Il ricordo è strumentale alla messa a fuoco di un’autogenesi del sé»

Claudio Finelli by Claudio Finelli
22 Agosto 2018
in Cultura

Luca Baldoni, poeta napoletano di nascita e fiorentino d’adozione, è certamente uno dei maggiori specialisti italiani di poesia a tematica omosessuale e la sua antologia Le parole tra gli uomini (Robin, Torino 2012) è un’opera indispensabile per la definizione di un canone della poesia gay italiana dal ‘900 ai nostri giorni.

Qualche mese fa, per la casa editrice LietoColle, Baldoni ha dato alle stampe una nuova raccolta poetica che si intitola Sale del ricordo: una silloge che, attenendosi a quanto lo stesso autore dichiara nella nota introduttiva, costituiva il primo volume di una trilogia poetica, a cui lo stesso aveva lavorato per dieci anni fino al 2011.

baldoni

Incontriamo, dunque, Luca Baldoni per saperne di più su questa raccolta, in cui il recupero memoriale si esprime attraverso un verso vibrante, asciutto e attento alla registrazione dell’universo fisico ed emotivo dell’autore.

Luca, la memoria è certamente l’elemento cardine ispiratore della silloge. Che ruolo ha il ricordo nella tua riflessione e nella tua elaborazione poetica? Nella nota introduttiva, presentando i tuoi versi, parli di “reperti di una fase conclusa”: cosa intendi?

Sale del ricordo fa parte di una trilogia poetica di cui avevo date alle stampe il primo volume, Territori d’oltremare, nel 2008. Nel complesso l’opera (con una terza parte ancora inedita), vuole restituire la traiettoria di una gioventù engagée e peripatetica. Ognuno di noi nutre verso le “gesta” della propria gioventù un atteggiamento in parte narcisista, ma alla base del mio recupero c’è un’affermazione di Marguerite Yourcenar in cui la scrittrice sottolinea come veniamo alla luce due volte: la prima per volontà e meriti altrui quando nasciamo e la seconda, in un periodo che va grosso modo dall’adolescenza alla prima età adulta, quando abbiamo l’occasione di darci una vita veramente nostra che può esulare da quello che saremmo divenuti per fatalità di condizioni sociali e familiari. Ho voluto esplorare questo passaggio in cui, se si ha fortuna e coraggio, si può tentare di diventare ciò che veramente siamo (o almeno avvicinarvisi). Dunque il ricordo non vuole essere elegiaco o consolatorio ma strumentale alla messa a fuoco di un’autogenesi del sé.

Considero i testi della trilogia “reperti di una fase conclusa” perché penso di aver arato questo campo in maniera esaustiva. Si cresce, si muta, e la nostra attenzione si rivolge altrove. Oggi – salvo imprevisti – non avrei più interesse a scrivere una poesia così soggettiva, realistico-prosaica e militante in senso esplicito. Non la rinnego assolutamente e non disdegno questi tratti se li ravviso in testi altrui. Ma il problema che ormai maggiormente mi assilla è il nostro rapporto miserabile e distruttivo con la natura e l’universo in generale. Per questo nell’ultima raccolta che ho scritto, ancora inedita, l’io è scomparso e i protagonisti sono le piante, gli animali, le costellazioni, il cambiamento climatico, le interazioni tra le varie parti del kosmos dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo.

Dublino, Berlino, la Grecia: queste sono alcune stazioni ben riconoscibili del viaggio “memoriale” che compi all’interno di Sale del ricordo. Se dovessi scegliere, per ciascuno di questi luoghi, un’immagine iconica della tua formazione di giovane omosessuale e di poeta, quale sceglieresti?

Forse più che di immagini iconiche parlerei di atmosfere. Nella Dublino dei primi anni ’90 che descrivo iniziava a essere evidente a più livelli il crollo di un regime sociale tradizionale che ha poi portato a una nuova Irlanda, a un Paese che, a differenza dell’Italia, si è pienamente sottratto alla tutela della Chiesa cattolica, ha approvato a larga maggioranza il matrimonio egualitario per via referendaria, e in cui la nomina di un primo ministro gay è stato un non evento. Come ho scritto in una poesia dedicata a Oscar Wilde, in quegli anni “crollavano statue dai piedistalli, ai vecchi pariah/ si rendevano onoranze.”

A Berlino incontrai una realtà ancora più avanzata e radicale. Qui forse c’è un’immagine, o meglio un luogo, simbolicamente centrale, lo Schwules Museum (Museo gay) “che preserva e trasmette/ storia esperienze e sogni/ contributi al vasto mondo/ di una comunità di uomini e di donne/ più volte nel corso della storia/ minacciata di estinzione.” Scoprire che esisteva un’istituzione del genere, e che la città nel suo complesso accoglieva e celebrava l’esperienza Lgbtqi come parte importante della propria identità, fu come vedere uno squarcio di futuro che vorremo fosse facile replicare anche altrove.

A Mykonos – che è l’isola non direttamente nominata ma facilmente riconoscibile della sezione greca – non andavo ovviamente per fare politica. Il binomio era sesso e sole, e il luogo simbolo la straordinaria chiesa di Paraportiani, attrazione turistica e soggetto di infinite cartoline, una colata di calce bianchissima piena di anfratti e di rientranze, affacciata da un lato direttamente sul mare, che al calar della notte diventava magico luogo di cruising e di incontri umani della più svariata natura.

Il tuo libro è anche un libro di formazione sentimentale in versi. Quale esperienza, tra quelle che emergono all’interno dell’opera, ti ha maggiormente “cambiato la vista”?

La raccolta, senza voler cadere in un banale “pensare positivo”, descrive numerose esperienze che, nutrendosi l’una dell’altra, si amplificano in un quadro che in inglese definiremmo di self-empowerment.  È il discorso di Yourcenar che ho citato all’inizio. Ciò detto, l’esperienza cruciale arriva nell’ultima sezione, e si tratta di un drammatico crollo interiore di cui feci esperienza dopo la fine dell’università. Crollo necessario a dare uno spessore, una seconda dimensione, agli slanci, ai narcisismi, all’innato ottimismo e al senso d’onnipotenza dei vent’anni. Semplifico drasticamente, ma tramite quel crollo fui obbligato a prendere contatto con la mia Ombra, col senso del limite e della sofferenza. A questo proposito amo ricordare a me stesso un aforisma shakesperiano tratto dal King Lear, usato da Pavese ne La luna e i falò come dedica alla sua amata Constance Dowling: Ripeness is all (“la maturità è tutto”). Ecco, in questo senso tutta la trilogia ripercorre l’attraversamento di una gioventù in vista di un difficile approdo a un più pieno e sfrangiato senso di sé.  

La tua poesia è – come sempre – anche una poesia consapevole e rivendicativa: dal racconto dell’amore giovanile dublinese alle memorie greche della Diva-chanteuse che “aveva cantato clandestinamente nelle bettole di Atene sotto i Colonnelli”, dal ricordo del Museo di storia gay di Berlino alle passeggiate romantiche e inquiete sull’Isola dei Pavoni. Quanto è importante e quanto è presente, secondo te, la cifra civile e rivendicativa nella poesia contemporanea? 

Ho spesso l’impressione di un atteggiamento supercilioso verso la poesia civile da parte della critica. Lo trovo molto irritante. Nel discorso accademico si tende a sminuire la poesia civile come parola impoverita perché messa al servizio di una causa, e si preferisce rifugiarsi in una concezione aristocratica secondo la quale la poesia sarebbe ipso facto sempre politica, in quanto segno di una rottura epistemologica col pensare maggioritario. In verità i poeti continuano grazie al cielo a scrivere testi apertamente civili senza alcun detrimento della qualità poetica. Per rimanere nel nostro contesto penso all’opera di Franco Buffoni, ormai imprescindibile nel panorama italiano attuale (e non solo poetico). Ma anche a quella di autori della mia generazione come Marco Simonelli o Eleonora Pinzuti, tra i primi ad articolare in Italia una poetica gay e lesbica pienamente contemporanea anche sotto il profilo delle rivendicazioni.

Certamente nell’ultimo decennio abbiamo assistito a una crescita di poesia politica declinata dalla prospettiva dei diritti civili, dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere. Ma si continua anche a scriverne di ottima su temi più “tradizionali”; e qui vorrei citare due altri miei coetanei, Fabiano Alborghetti che nel romanzo in versi Maiser ripercorre una storia di emigrazione italiana verso la Svizzera, e Matteo Fantuzzi col poema corale La stazione di Bologna sull’attentato del 2 agosto 1980. Sono entrambi opere che hanno ricevuto riconoscimenti e attenzione e che dimostrano come il pubblico dei lettori richieda e abbia bisogno di questo tipo di riflessione.

Infine, l’ultima sezione, Il mio custode, è senza dubbio la più drammatica e “atemporale”. Quale è il demone che, nel mondo contemporaneo, incombe – sotto le mentite spoglie del custode – nella vita di un intellettuale dichiaratamente omosessuale?

Capisco il senso della tua domanda – e potrei rispondervi – ma percepisco anche un minimo fraintendimento. Non c’è dubbio che nella crisi della sezione finale possano essere fatte rientrare esperienze traumatiche comuni alla crescita di molti omosessuali. Ma non è questo che tematizzo. Le poesie rappresentano un succedersi di crolli, di incubi vissuti a occhi aperti, di prepotenti somatizzazioni, una sintomatologia enigmatica e sovradeterminata di natura segnatamente psichica. Il lessico e l’immaginario cambiano – sono, come dici tu, più “atemporali”, quasi araldici – e segnalano qualcosa che va al di là di tutto ciò di cui si è fatta esperienza prima. Ma insieme al dramma interiore cerco anche di esprimere la consapevolezza del carattere necessario, e forse nel futuro fruttuoso, di questa fase.

Per questo ho intitolato la sezione Il mio custode, non in senso ironico o straniante, ma perché chiunque sia in cerca di se stesso deve accogliere il carattere ultimamente salvifico delle più improbabili discese agli inferi. L’Ombra, per quanto imprevedibile e dolorosa, ci salva dall’unilateralità, dall’egotismo e dalla piattezza. Paradossalmente, può agire come il nostro miglior custode.     

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