La grande paura del Coronavirus, originato dalla Cina, si è impossessata ultimamente anche dell’Italia che risulta terza nel mondo per numero di casi.
Al momento da noi sono 650 i casi accertati, di cui “solo” 56 in terapia intensiva, mentre i decessi ammontano a 17. Il confronto con la “normale” influenza stagionale è clamoroso: nell’anno appena passato ci sono stati nel nostro paese 8.124.000 casi con migliaia di decessi dovuti, per lo più, a mancanza di vaccinazione e all’età avanzata in persone fortemente problematiche per malattie pregresse.
È stato detto che si tratta di un virus poco letale (per fortuna) – e, comunque, meno della precedente epidemia di Sars – ma molto infettivo. I casi asintomatici sarebbero parecchi e molte persone colpite mostrano sintomi lievi con processi di guarigione senza cure particolari che non siano la quarantena volontaria a casa propria.
Tuttavia, si sono prese misure drastiche come la chiusura di scuole e il blocco di ogni attività pubblica. Non solo nelle zone “focolaio” ma anche in regioni con pochi casi come l’Emilia Romagna e in città come Bologna che, al momento, non ha alcun caso registrato.
Misure sproporzionate? Tra qualche mese l’andamento dell’epidemia ci dirà se lo erano o meno. Certo è che in altri Paesi non si è seguita la strategia dei test di massa come in Italia, dove l’allarmismo ha portato il nostro Paese a subire una sorta di ostracismo internazionale con navi piene di italiani bloccate nei porti e turisti fatti tornare a casa come nel caso dell’aereo dell’Alitalia alle Mauritius. Persino il Parlamento Europeo ha chiesto ai deputati italiani, provenienti dalle zone rosse, di non frequentare i luoghi istituzionali Ue per almeno 14 giorni.
Chi, come me, si è battuto a suo tempo contro la definizione di gruppo a rischio, non può non riflettere sul fatto che ora un’intera popolazione venga considerata tale. Il tutto con danni enormi per la nostra economia, il turismo, le esportazioni e le attività produttive in generale, a partire dall’agricoltura e dalla zootecnia, ambiti in cui scarseggia il personale.
Come le persone omosessuali non erano gruppo a rischio in quanto tale durante gli anni dell’esplosione dell’Aids, così è bene dire che l’Italia non è a rischio in quanto tale. Ed è proprio la purtroppo non ancora risolta epidemia da Hiv che dovrebbe insegnare qualcosa.
Dal 1983 (anno del primo episodio di intolleranza italiana sulla questione Aids quando le lavanderie di Porto Sant’Elpidio si rifiutarono di lavare lenzuola e coperte dei gay-camp) al 1996 (anno dell’introduzione della triterapia come prima arma realmente efficace nella lotta al virus), ci furono migliaia di morti e milioni di contagiati. Forse l’Aids è stata l’ultima grande pandemia moderna con 30 milioni di decessi in tutto il mondo.
Nel giugno dello scorso anno, in occasione della celebrazione del 50° anniversario della rivolta dello Stonewall Inn a New York, ho reso omaggio al Memorial sorto al posto della primitiva struttura del Saint Vincent Ospital, che fu in prima linea nella lotta all’Hiv/Aids. Furono 100.000 i morti solo a New York.
Ci fu allarmismo allora? Certamente sì, ma nessuna misura paragonabile a quelle prese per il Coronavirus. Complici anche l’Oms e l’errore, a mio avviso, di una classificazione della malattia che era definita sulla base di chi la prende e non su quella delle modalità con cui si prende. Sarebbe bastato dire che l’Hiv si trasmette con i rapporti sessuali non protetti, con lo scambio di siringhe infette, e tra madre e figli durante il parto. Tre modalità facilmente comprensibili che avrebbero suggerito quasi automaticamente a usare siringhe monouso, a proteggersi col preservativo nei rapporti sessuali e a ricorrere al taglio cesareo in caso di madre sieropositiva. Oggi con la triterapia, la Pep, la PrEP e la Tasp siamo in grado di ridurre drasticamente i contagi. Possiamo dire che, se si usassero tutte le precauzioni e se i farmaci fossero a disposizione di tutti, si potrebbe debellare definitivamente il virus dell’Hiv in un decennio o due.
Ma ci fu chi cercò di approfittarne in modo indecoroso. Il cardinale Siri di Genova parlò di «castigo di Dio» (qualche scellerato ha tirato fuori questa stupidaggine anche ora sul coronavirus). La Congregazione per la Dottrina della fede, di cui era all’epoca prefetto il card. Ratzinger, nell’orrido documento Sulla cura pastorale delle persone omosessuali parlò di «comportamenti intrinsecamente disordinati» e dello stesso orientamento omosessuale come «oggettivamente disordinato».
Eravamo in trincea, perché il nascente movimento Lgbt rischiava di vedersi messo all’indice e le battaglia per i diritti civili subire un duro rallentamento. Ma non andò così, perché sapemmo reagire e trasformare la gigantesca paura in un’occasione di presa di coscienza di massa. Sia sui media, che finalmente ci ascoltavano, sia presso grande pubblico, che cominciava a mostrare un vero interesse verso la collettività Lgbt+.
Il momento di maggior tensione lo registrammo all’Arcigay camp del 1985 a Rocca Imperiale (Cs), dove addirittura il sindaco ci intimò di chiudere il campeggio con apposita delibera. Forse l’errata convinzione, che l’Hiv fosse delimitato ad alcuni gruppi a rischio, ci evitò misure drastiche come quelle adottate finora sul Coronavirus che però si trasmette per via aerea.
È probabile che qualcuno, anche in questo caso, cerchi di approfittarsene come chi specula nel vendere mascherine e igienizzanti a prezzi folli su internet (la magistratura sta indagando per frode in commercio)
Va da sé che tutto ciò rappresenta un comportamento fortemente censurabile e per certi versi disgustoso. Come chi spara a zero sull’attuale governo accusato di non aver saputo gestire al meglio l’emergenza.
Per parte nostra possiamo dire che siamo solidali col personale sanitario che fronteggia questa sfida come che è bene osservare le norme igieniche di base indicate da settimane. Il tutto nella speranza di poter tornare il più presto possibile alla vita e al lavoro di prima. Vita sociale, viaggi e attività produttiva non possono essere messi in ginocchio da una malattia che la scienza è in grado di combattere con le armi della ricerca, che, a sua volta, deve essere potenziata e dovutamente finanziata dallo Stato.
Ultima annotazione. In Italia abbiano un sistema sanitario nazionale. In Cina e negli Usa no: la sanità è legata alle assicurazioni private e al reddito personale. In Paesi come questi molte persone muoiono perché non possono permettersi le cure. Hanno ragione quindi quei candidati alle elezioni americane che mettono al primo posto una sanità come quella europea e italiana, di cui possiamo andare fieri e che dobbiamo difendere a tutti i costi.