«Sappiamo che Sylvia e Marsha, persone trans, erano parte di quella ribellione. Anzi erano tra le figure leader di quel momento decisivo della storia. Tuttavia, il movimento che hanno contribuito a costruire spesso voltò le spalle a loro e alla causa trans. La loro storia è stata cancellata e minimizzata».
Queste le parole con cui, il 31 maggio, Bill De Blasio, sindaco di New York, ha accompagnato l’annuncio di un monumento a Sylvia Rivera e Marsha P Johnson nei pressi dello storico Stonewall Inn Bar.
Parole quanto mai significative proprio a 50 anni dei moti di Stonewall, in riferimento alla cui origine viene inequivocabilmente ribadito, una volta per tutte, il ruolo protagonistico di Sylvia e Marsha e, attraverso di loro, delle persone trans.
Un riconoscimento, di cui si è fatto portavoce anche il Roma Pride, la cui madrina sarà Porpora Marcasciano, presidente onoraria del Mit e figura storica del transfemminismo italiano.
A pochi giorni dalla parata dell’8 giugno l’abbiamo raggiunta telefonicamente, per raccoglierne impressioni e valutazioni.
Porpora Marcasciano: chi è, chi è stata e chi sarà?
Continuo a chiedermelo anche io e più passa il tempo più mi mancano le risposte. A dire il vero mancano le parole per descrivere le tante Porpora che vivono dentro il mio corpo. Ho passato anni a trovare la collocazione, l’identità, la definizione e comprendo solo ora che non ne ho bisogno, perché quelle etichette servono a catalogare e costringerci, e io sono claustrofobica. Per semplificare e comunicare, posso dire di essere trans. A cui va aggiunto attivista, libertaria, romantica, vagabonda, sognatrice. Ancora alla ricerca dell’isola che non c’è!
Cosa significa per te essere stata scelta come madrina del Roma Pride a 50 anni dai moti di Stonewall e a 25 dal primo Roma Pride?
Inutile dire che ne sono orgogliosamente onorata, non solo per pura lusinga personale ma soprattutto perché attraverso me il riconoscimento è di una categoria e di un percorso storico e politico. È un riconoscimento al ruolo e all’apporto delle persone trans al percorso di liberazione. Un riconoscimento affatto scontato di un’esperienza collocata sempre fuori, oltre, dietro, sotto e mai considerata nella sua complessa pienezza. Non dimentichiamoci mai che le persone trans hanno decostruito il simbolo assoluto del nostro sistema patriarcale: il maschile! E che quella decostruzione è costata molto, molto cara perché mette in discussione il potere maschile, lo neutralizza, lo indebolisce, lo ridicolizza.
Attraverso i tuoi libri, fra i quali il più recente è L’aurora delle trans cattive, ripercorrendo parte della tua vita, narri la storia del movimento Lgbtqi+ e del movimento Trans. Avverti mai il peso dell’essere depositaria della storia del movimento o, comunque, di parte di esso?
Avverto la responsabilità di una storia importante e preziosa, che sicuramente comprende altri punti di vista anche differenti. Quello che mi incoraggia è l’essere stata sempre protagonista e mai spettatrice di eventi impareggiabili, non solo della storia Tlgqi, ma più in generale di quella contemporanea. Spesso sento la solitudine di un movimento che non è riuscito a mettere a valore la propria storia, che se l’è fatta passare via senza un minimo di riflessione. Riflessione, che male non avrebbe fatto.
In più occasioni ti sei definita transfemminista. Cos’è per te il transfemminismo e in che modo le sue istanze possono coniugarsi con quelle del movimento Lgbtqi+?
Sono transfemminista perché in quel percorso ritrovo tutte le intersezionalità del mio percorso politico, della mia formazione e della mia visione del mondo. Alla manifestazione oceanica di Non una di meno a Verona, il 30 marzo, ho finalmente ritrovato il gusto, la forza e la voglia di riprendere la lotta. Se rivolta c’è stata e ha cambiato il mondo, rivolta ci sarà per un mondo più simile a noi.
Quali sono le strategie che il movimento Trans dovrebbe adottare per non essere invisibilizzato?
Parto dall’esperienza Mit, perché aver costruito servizi, progetti e buone pratiche ci ha permesso di restare ancorati alla storia in un’epoca in cui tutto è diventato effimero e caduco. Sono le pratiche concrete che trasformano le condizioni materiali di vita e danno forma, forza, senso e significato al nostro percorso. Per me questa è una strategia importante: mai smettere di combattere, pensare ed elaborare, concretizzare risposte ai bisogni.
In uno scenario a tinte fosche come quello odierno, c’è anche bisogno di speranza. Che messaggio lanceresti alle nuove generazioni?
Come diceva Mao: Problemi sotto il sole? Bene, la situazione è ottima. Tutti, nuove e vecchie generazioni dobbiamo comprendere profondamente che nulla ci viene regalato, ma tutto bisogna conquistarselo. Che viviamo in contesti avversi, perché quella che ci circonda è una società vetero patriarcale, questo era vero negli anni 60 e 70 ed è vero oggi. Il nostro percorso di liberazione non si è mai esaurito, esso procede e va inquadrato e visto in una pratica di Resistenza. Senza paura e con molto coraggio dobbiamo procedere a testa alta, contro la violenza strutturale del sistema, contrapponendo la nostra favolosità.
Una volta si diceva che amiamo il sole ma ci piacciono le tempeste
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