Il romanzo di Pajtim Statovci Le transizioni (Sellerio, Palermo 2020, pp. 260, €16) è un libro complesso e la primissima impressione che voglio registrare nella sua lettura è quella del disorientamento. Non c’è una trama classica, non c’è unità di luogo e di tempo, anzi i luoghi cambiano continuamento in una specie di via crucis disordinata e piena di dolore e i tempi vanno indietro e avanti come in un gioco dell’oca pieno di caselle che catapultano a caso il filo narrativo. Non c’è unità di voce narrante, quella del/della protagonista, che cambia identità senza avvertire in nessun modo il lettore e senza sentire in alcun modo il bisogno di giustificarsi. Non c’è unità di lingua perché Bujar/Ariana/Tanja parla l’albanese a Tirana e il kosovaro dei suoi avi, poi impara l’italiano a Roma ma poco dopo frequenta un corso di scrittura creativa in Germania, e quindi in tedesco, poi parla l’inglese a New York, e ancora studia il finlandese a Helsinki.
Bujar/Ariana/Tanja e altri, che non si danno neppure la pena di far conoscere il loro nome, sono personaggi che si inventano continuamente raccontando storie della loro vita sempre un po’ diverse, mai del tutto coincidenti. Ma noi lettori sappiamo sin dalla prima pagina che il/la protagonista sarà sempre lo/la stessa per tutto il romanzo. A volte il/la protagonista si dice eterosessuale, come succede a Bujar adolescente, innamorato del suo amico Agim, l’amico del cuore, quello che non si dimentica più, con il quale fa sesso con grande soddisfazione. A volte è una donna trans non operata e non ormonata che non fa mai capire chi le piaccia veramente, oppure si invaghisce di una drag queen. A volte è un uomo che si traveste da donna di nascosto alla sua fidanzata Tanja, che invece è una donna in transizione da maschio a femmina, rubandole anche il nome. Altre volte è un uomo, in apparenza etero che si fidanza con una donna etero, la spagnola Rosa, ma poi le ruba i vestiti per travestirsi.
Tutti i/le protagonisti/e sono comunque inquieti/e, sempre alla ricerca di una realizzazione impossibile, sempre corrosi dal dolore che li accompagna, improvvisamente rabbiosi e aggressivi, quasi sempre infelici e poi improvvisamente calmi, ordinati, lavoratori, studiosi per poi ricominciare daccapo. Il libro è colmo di negazioni e cancellazioni, prima fra tutte quella dell’identità culturale di Bujar, cioè albanese e kosovara, ripudiata con estrema forza ma poi rinascente attraverso la narrazione di tante storie di quella stessa tradizione. E poi la continua affermazione e cancellazione della propria identità di genere, che muta senza mai saper individuare il proprio oggetto d’amore. Tutto questo continuo squilibrio in qualche modo rispecchia, si potrebbe pensare, lo squilibrio generale del mondo di oggi, nel quale la globalizzazione ha portato maggiori disuguaglianze e spostamenti di grandi masse di persone in cerca di un futuro migliore, come anche il romanzo racconta. E rappresenta, forse, non solo l’odissea del/della protagonista, ma anche quella di intere generazioni, cresciute in un contesto nel quale i valori sono cambiati vorticosamente e questo sta creando un disagio che potremmo definire universale. E in questo disagio si potrebbero sentire rappresentate non solo le persone Lgbt+ ma anche le tante minoranze, gli emarginati, le donne, le centinaia di milioni di persone sfruttate da lavori schiavizzanti a Tirana come a New York, in pratica l’intera società occidentale.
Nella prima parte del libro è dominante il tema della morte e della violenza: la morte del padre, l’incredibile funerale kosovaro, il pestaggio dell’amico Agim da parte del padre che lo scopre vestito da donna, l’idea costante della morte come soluzione alle impossibilità del protagonista e un suo tentativo di suicidio, l’aggressione da parte del suo amante Anton quando scopre che è una donna col pisello. Successivamente i vari racconti che si sgranano l’uno nell’altro, senza mai corrispondersi, sembrano suggerire un allentamento del drammatico disagio di vivere del/della protagonista, ma verso la fine arrivano come due macigni il suicidio della sua fidanzata Tanja che Bujar-Tanja ha appena abbandonata e lo svelamento drammatico della sparizione dell’amico del cuore, quel tenero Agim tanto amato e che non potrà più essere sostituito da alcuno o da alcuna.
Si tratta comunque di un testo che scava molto nel profondo, soprattutto nelle parti più riservate di sé, che spesso conservano le cicatrici dovute alle perdite, alle violenze subite, ai desideri nascosti e insoddisfatti, alle identità problematiche perché minoritarie, alle paure che ci conserviamo gelosamente nel fondo del nostro essere. E per queste ragioni, oltre che per la bellezza della scrittura, è un libro che vale di certo la fatica di essere letto. Anche se non è facile districarsi in mezzo a tutti questi elementi disorientanti e non è nemmeno facile identificarsi con uno/una dei protagonisti perché ciascuno di loro ha sempre qualcosa di contraddittorio che non ce lo fa amare completamente. Ciascuno di loro è contemporaneamente vittima e cattivo soggetto, tenero e crudele, abbandonato e abbandonante, sincero e grande menzognero.
Infine c’è da osservare la bellezza delle tante storie fantastiche disseminate un po’ ovunque, che Pajtim Statovci ha inserito nel suo romanzo, racconti nel racconto che si rifanno ad antiche credenze popolari, a leggende di origine albanese-kosovara piene di immagini eroiche, drammatiche a proposito di cavalieri coraggiosi, di re feroci, di cavalli, di aquile, di faide e di assassini, di sangue e di onore.
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