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A tu per tu con Miguel Benasayag in tempi di pandemia

INTERVISTA AL FILOSOFO FRANCO-ARGENTINO ALLA LUCE DEL "PICCOLO MANIFESTO" DEL COLLETTIVO MALGRÉ TOUT

Paola Guazzo by Paola Guazzo
15 Aprile 2020
in Attualità

È da oggi disponibile, per la collana Semi della casa editrice Nottetempo, Piccolo manifesto in tempi di pandemia a cura del collettivo Malgré Tout (Miguel Benasayag, Bastien Cany, Angélique Del Rey, Teodoro Cohen, Maeva Musso, Maud Rivière) e del suo corrispettivo italiano Malgrado Tutto (Roberta Padovano, Mary Nicotra, Daniela Portonero). Piccolo manifesto, un ebook liberamente scaricabile, contiene riflessioni e proposte controcorrente per elaborare un pensiero sul Covid-19 che non sia solo dettato da paura, normatività e sospetto.

Esso è inoltre il frutto di un lavoro collettivo profondo, ponderato e dialogico, che non indulge agli egocentrismi – a volte anche ammantati da pathos rivoluzionario in quarantena – delle esternazioni filosofiche in tempi di instant book e di videoconferenze. Ma si situa in una prospettiva di critica capillare della virulenza capitalistica e di rilancio possibile per una politica in cui i corpi vivi degli e delle oppresse escano da impossibilità ed astrazione e possano finalmente prendere parola e luogo nel mondo. Il Manifesto è reticolare, ma è bene notare il lavoro svolto in esso e fuori di esso da parte di Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista franco-argentino di origine ebraica (la madre fuggì dalla Francia nel 1939).

Conosciuto da noi soprattutto per L’epoca delle passioni tristi (Feltrinelli 2004), Benasayag è molto oltre quel  titolo fortunato: un intellettuale di frontiera con una produzione e una ricerca feconda nel campo delle neuroscienze e del rapporto critico con le tecnologie, sempre orientato a conoscenza e vivificazione delle potenzialità rivoluzionarie che possono essere rinvenute persino nel campo devastato e luttuoso che abbiamo davanti in questi giorni ovunque guardiamo, in Italia e nel mondo. Gli abbiamo fatto qualche domanda su di sé, sul mondo, sulla natura e sul suo lavoro di pioniere paziente e di determinato rivoluzionario. Malgré tout.

«Ecco allora che la pandemia che stiamo vivendo sembra scombussolare lo scenario che si era delineato fin qui. D’un tratto ci rendiamo conto che i corpi sono di ritorno, anche se in maniera catastrofica e sotto minaccia» scrivete nel Piccolo manifesto in tempi di pandemia. Ma quali corpi emergono nella narrazione dominante? E, per contro, chi e cosa può essere sacrificato nel nome della pandemia? Quali corpi saranno sacrificati?

È tutta una questione di biopotere, quella che si gioca. C’è il dato della promiscuità tra le specie che è stata l’origine di questa pandemia. Nel 1968 in tutta Europa c’è stata una pandemia di influenza che si chiamava “influenza di Hong Kong”. In Francia ci sono stati 40000 morti, nel mondo un milione di morti e nessuno ne ha parlato. La pandemia del 1968, che è l’unica comparabile all’attuale nei tempi più vicini a noi, era dovuta anche alla promiscuità tra le specie e all’attitudine degli umani verso la natura. Cominciavano già ad emergere certe malattie, ma nel  1968 si era immersi nel progresso, cominciava il boom economico, non c’era ancora l’ideologia del progresso, della tecnologia, dal punto di vista storico. Una pandemia non aveva lo stesso senso che ha adesso.  Oggi si dicono molte cose, tutti parlano, cercano di capire. Tuttavia fanno attenzione, il problema è “non capire troppo”. Capire troppo è considerato un pericolo.

La pandemia è gravissima, questo è sicuro, ma la differenza fondamentale è la sua interpretazione. Nel 1968  non doveva significare niente,  solo rappresentare una sfida per la potenza della scienza, dunque non se ne è parlato. Quando si parla del 1968 non si parla della pandemia, si parla d’altro. La  pandemia Covid-19 arriva invece in un momento di cambiamento di paradigma di cui si parla incessantemente, quello della futura minaccia. Futura promessa, futura minaccia. È per questo che la questione è così minacciosa, non  semplicemente per la quantità dei morti, è così minacciosa perché tutti  si sentono minacciati.

Emergono le colpe. La più importante è che il biopotere ha preso potere – come Michel Foucault ha fatto notare ne La biopolitica del biopotere – affermandosi sui corpi, disciplinando il modo di vivere, il modo di desiderare. Questa è una pandemia nell’epoca del biopotere, non è una pandemia nell’epoca della politica, progressista e ottimista, della futura promessa

Noi dobbiamo cercare di avere un’idea adeguata. L’evento della pandemia ora può liberare la potenza d’agire. Per questo non dobbiamo sbagliare. Non dobbiamo cadere nella paura. È importante riflettere, al di là di ogni scientismo che dice “adesso tutti a casa propria, tutti devono obbedire perché arriva una cosa incredibile”. Non è vero che “siamo tutti sulla stessa barca”, che questa pandemia è inedita rispetto a tutte le altre. Cosa succede veramente? Ciò che succede è il trattamento della malattia sul piano globale,  che si alimenta nella paura del futuro e nella disciplina, una disciplina desiderata dalla gente.

Dunque, sono i corpi che emergono, “i corpi che si ricordano”.  Sono i corpi che fin qui il biopotere e il neoliberismo, forme consustanziali, hanno considerato come corpi assolutamente labili, di cui potevano fruire, e che potevano essere spostati e utilizzati in qualsiasi modo. Di colpo si vede che i corpi non sono così labili e sono più territorializzati di quanto il neoliberismo e il biopotere volessero pensare. I corpi riemergono in quanto oscurità, come pesanti, complessi, oscuri. E dunque il biopotere sta fuori e dice: “Ognuno a casa sua, nessuno deve muoversi, c’è qualcosa di inedito, di inedito!”

Noi dobbiamo avere la tranquillità di spirito per comprendere che ciò che arriva inedito non è. L’inedito è la pandemia nell’epoca del biopotere. Il biopotere pensava di aver dominato i corpi, di averli resi trasparenti, assolutamente labili, disciplinabili. Il biopotere adesso ha paura perché pensa che i corpi non siano abbastanza disciplinati, si chiede cosa può fare per non permettere tutto questo. Una reazione massiccia. Nel 1968 tutto continuava a funzionare, la gente cadeva e moriva senza nessun problema, ma l’economia continuava il suo  andamento, perché era in piena crescita. Adesso ci sono le paure che  il potere stesso ha creato. Le paure che non esistevano nel ’68 perché il potere diceva “cadrà chi cadrà, ma l’economia continua, siamo in piena crescita, il futuro è una promessa”. Oggi questi corpi appaiono come non padroneggiabili, non abbastanza disciplinati. Dunque il biopotere dice “devo fortificarmi”.

Ho parlato con un amico in Argentina, che è stato con me in carcere e adesso è un professore di psicopedagogia. Mi manderà un “rapporto” su ciò che accade nelle bidonville, nelle favelas (che da noi si chiamano bidonville). Con il Collettivo Malgré Tout abbiamo lanciato un’inchiesta dieci giorni fa per vedere cosa succede (como se pasa) nei monoblocchi delle banlieue. Nelle bidonville – come diciamo noi – è la bija miseria (come si dice in spagnolo), ed è un disastro perché la promiscuità è inevitabile, i gesti-barriera sono una farsa. Cosa succede nelle carceri, nei campi dei migranti,  fra gli esclusi, i soprannumerari? La questione è che questa pandemia, paradossalmente, ha toccato e ha iniziato a diffondendersi direttamente nella classe media, che ha avuto una paura terribile  All’inizio scherzavamo: c’erano molti uomini e donne della politica, potenti, che avevano il coronavirus. Anche BoJo, e pare anche Bolsonaro l’abbia avuto.

È una pandemia che non è iniziata nelle bidonville e non è cominciata nel terzo mondo, perché la Cina è e non è terzo mondo. Il modo di vita sociale è da terzo mondo e il modo di produzione è come quello del primo mondo. È un ibrido, la Cina. La pandemia non è iniziata in India, nell’America del Sud, né in Colombia o in Africa. Questo ha molto a che vedere con il dispositivo topologico del potere attuale del potere “dopo caduta del muro”.

Non è più un dispositivo duale, è un dispositivo frattale. Un dispositivo fortezza e roccaforte versus no man’s land. Ci sono paesi fortezza, roccaforte e paesi no man’s land, ma anche all’interno di ogni paese c’è una zona roccaforte, i quartieri chic, e una zona no man’s land, che sono le periferie, la banlieu. Questa malattia è arrivata dentro la fortezza. È arrivata dove non deve arrivare.

In ogni caso, i primi corpi che saranno sacrificati saranno quelli dei più deboli, gli anziani di tutte le classi sociali, e di tutti coloro che vivono ai margini della società, che non hanno dei circuiti abituali e normali per essere considerati importanti.  C’è una sorta di eugenetica pragmatica. Quelli che devono essere salvati e quelli che si possono sacrificare. In questo senso non c’è nessun dubbio su quelli che saranno sacrificati e che sono già sacrificati. Viene rimesso in scena ciò che abbiamo voluto dimenticare, cioè che le classi sociali esistono, che i sovrannumerari  esistono. Tutto ciò che abbiamo voluto lasciar cadere nell’oblio riemerge.

A un immaginario dell’espansione capitalistica e del postumano si va sostituendo quello della necrosi relazionale e del sacrificio, la popcronicizzazione di uno stato permanente di astenia governabile? Dopo le passioni tristi il controllo triste? Blanchot ne L’écriture du desastre ha scritto: «Il disastro si prende cura». Vuole commentare?

Il pensiero del disastro è un pensiero troppo globale per me. Non c’è un disastro, così come una minaccia che sia un punto fisso. È un processo contraddittorio. Da un lato domina la distruzione, dall’altro aumenta un po’ la resistenza. Penso che tutto il tema del disastro debba essere messo tra parentesi e noi dobbiamo agire come se tutto possa continuare. Questa è stata per me l’esperienza di  anni in carcere. Sapevamo che saremmo potuti venire uccisi in qualsiasi momento, potevano fucilarci o torturarci ancora una volta. Similmente, penso che il disastro debba arrivare e che noi dobbiamo continuare ad assumere la vita. È l’unica sfida possibile.

Le metafore di guerra fanno parte della narrazione del virus. Lei che ha vissuto davvero con il suo corpo guerriglia e prigione, che ha attraversato sofferenza e conflitto con braccia e armi, cosa pensa di queste narrazioni?

È un po’ quello che diciamo nel Piccolo manifesto. Quando dichiara: “Siamo in guerra!”, il maresciallo Macron è buffo e tragicomico. È assolutamente ridicolo, ma fa parte del problema. “Faremo la guerra contro il virus!” Ma il problema non è il virus! Il virus è il sintomo di uno sconvolgimento ecologico grave, cominciato decenni fa. La guerra fa pensare che dobbiamo rendere ancora più forte la crescita, dobbiamo dominare e possedere la natura ancora di più. Quindi i vaccini e i farmaci. Può essere molto desiderabile il vaccino, per salvare la vita alla gente. Ma se questa è la risposta, la risposta fa parte del problema. L’unica risposta possibile non è bellica, virile, conquistatrice.

La risposta, al contrario, è assumere la fragilità dei legami, la fragilità dell’ecosistema. Per questo ogni linguaggio bellico fa parte del problema e inoltre  dopo  la crisi  faranno lavorare le  persone come schiavi, perché c’è stato lo sforzo della guerra. In realtà si tratta assolutamente del contrario. Si tratta di dire: “Abbiamo creduto per due o tre secoli nel fare la guerra alla natura e questa è la pura conseguenza di questa guerra”. Perché ogni guerra contro la natura è una guerra di Pirro (chi guadagna perde, chi vince perde) ed è una guerra contro noi stessi. Il linguaggio bellico è assolutamente un linguaggio stupido. In relazione alla mia esperienza di guerra non è assolutamente comparabile una dittatura fascista con il virus. Il virus non è un nemico. Il virus fa parte di un sistema del quale noi facciamo parte, in cui dobbiamo cercare una regolamentazione per poter non morire a causa sua. Le foreste, i boschi per esempio permettono di metabolizzare i virus. Ogni pensiero bellico da un lato fa parte del problema, dall’altro servirà a schiacciare la gente dopo la pandemia.

Ci racconta qualcosa della sua esperienza con i malati di Aids, del suo prendersi cura?

L’esperienza con i malati di Aids è quella che ho fatto quando ho iniziato a lavorare sulle cure palliative. Gli omosessuali maschi erano già consapevoli che la medicina era oppressiva per loro, che non era affatto un alleato, era un nemico che voleva guarirli dall’omosessualità. La differenza è questa. Primo, la maggioranza della popolazione oggi non ha nessuna esperienza di contestazione, a differenza degli omosessuali nei confronti del biopotere,  verso il potere medicale (come si diceva all’epoca). Secondo, questa maggioranza della popolazione è infantilizzata. Bambini che aspettano che i grandi risolvano i problemi.

Nel Piccolo manifesto parlate di differenza tra percezione ed appercezione dei fenomeni. Può spiegare ai lettori e alle lettrici la differenza e dove essa potrebbe condurci?

In ambito neurofisiologico chiamiamo percezione tutti gli interscambi fisici e chimici che intercorrono con l’ambiente. Appercezione si ha quando un individuo crea un’immagine rispetto a ciò che accade. Ad esempio, se siamo colpiti da un’irradiazione nucleare noi non la appercepiamo. Il nostro corpo soffre per questo, ne è toccato, può morirne ma non abbiamo un’immagine prima di essere assolutamente rovinati. Percezione è l’interscambio permanente dei corpi – come corpi – tra gli altri corpi, energia, materia Appercezione è l’emergere di un “io” in un “non-io”, quando “io” può produrre un’immagine di ciò che accade. Questa immagine è sempre un sottoinsieme di ciò che accade. In relazione alla minaccia ecologica, ciò che mancava era un’immagine appercettibile. Prima c’era solo la gente che veniva  toccata direttamente, ad esempio dalla diossina o dal disastro chimico di Bophal. Dove può condurci questa esperienza? Può condurci al fatto che se una grande quantità, una maggioranza di gente arriva a produrre l’immagine di cos’è il  disastro ecologico potrà agire. Come accade quando le persone sono vicine ad un disastro ecologico locale. Come per la Tav, le persone capiscono cosa significa il disastro ecologico e riescono ad agire

Crede che, reti politiche a parte, un rapporto con un sostrato religioso e teologico non conservatore – che in fondo ha avuto anche pensatori e pensatrici come Teilhard De Chardin, De Certeau e Mary Daly – sia utile anche a sinistra per l’elaborazione di un piano di pensiero non deumanizzante ed aperto alla sofferenza concreta e incarnata? Bergoglio può essere stato il pontiere per una nuova dimensione?

Io non penso che la religione sia l’oppio dei popoli. Penso che la religione sia un fenomeno complesso, contraddittorio. Sono stato in carcere con molti preti operai, preti del terzo mondo come si chiamavano. Non penso che possiamo parlare della  religione come un blocco unico. La religione non è né amica né nemica. Dipende. Teilhard De Chardin ha provato ad articolare una visione teologica con il darwinismo ed è molto interessante. Tutti i preti e le suore del terzo mondo sono molto interessanti, sono amici.

Per quanto riguarda Bergoglio, ciò che non è chiaro per  la maggioranza degli argentini, è se Bergoglio è venuto per far evolvere un lato progressista all’interno della Chiesa o se è venuto per salvaguardare la Chiesa, perché era necessario a questo giro. Questo non lo so. È vero che le cose che dice ed alcune cose che fa vanno nella direzione di una chiesa dell’emancipazione. Tuttavia lui è stato un prete dei poveri in Argentina, ma non è stato alla fine un prete del terzo mondo e dell’emancipazione.

Penso che non sia un nemico e che sia molto interessante (non è Ratzinger), tuttavia quando penso alla religione e al posto che può occupare la religione –  cattolica in questo caso – per l’emancipazione, penso alla contrapposizione tra i preti del terzo mondo e i preti della Loggia P2 e del Banco Ambrosiano. La Chiesa ha movimenti in tutte le direzioni.

 

Tags: argentinacapitalismocoronaviruscovid-19guerramiguel benasayagpandemiapiccolo manifestopiccolo manifesto in tempi di pandemiareligione
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