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Il Friuli esce dalla rete Re.a.dy tra lo sconcerto delle associazioni Lgbti. Serracchiani: «Fedriga si fa dettare l’agenda da CitizenGo»

Francesco Lepore by Francesco Lepore
31 Maggio 2018
in Politica

La Giunta regionale del Friuli Venezia Giulia, presieduta dal leghista Massimiliano Fedriga, non ha fatto a tempo a insediarsi che ha subito proceduto a recedere dalla Rete nazionale delle Pubbliche amministrazioni anti discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere (Re.a.dy).

Lo ha comunicato Alessia Rosolen, assessora a Lavoro, Formazione, Istruzione, Famiglia, Ricerca e Università, su cui proposta è stato ieri deliberato in merito a Palazzo del Lloyd Triestino. «Le istituzioni scolastiche e le famiglie hanno strumenti sufficienti per insegnare e trasmettere i valori del rispetto e della diversita – così l’assessora –. Ogni altra iniziativa sul tema rischia di essere solo un indebito indottrinamento».

Come spiegato in una nota ufficiale della Regione, si tratta di posizione assunta «nel quadro di un complessivo riesame delle politiche regionali relative ai temi dell’inclusione sociale, delle pari opportunità e della non discriminazione. Ciò anche in considerazione del fatto che la Rete Re.a.dy, fondata nel 2006 su iniziativa dei Comuni di Torino e Roma, ha approvato nel 2017 un documento dichiarato vincolante per i partner che prevede una serie di attività, anche amministrative, aventi a oggetto esclusivamente le tematiche attinenti a Lgbti.

La Giunta ritiene invece che le categorie da tutelare attraverso l’azione delle strutture regionali siano molteplici e che debba avviarsi una riflessione in merito al bilanciamento delle azioni a beneficio delle categorie più vantaggiate verso il conseguimento delle pari opportunità. L’amministrazione regionale si riserva quindi di prendere in considerazione anche nuove e diverse istanze sociali per porre in essere un piano di intervento che assicuri la rimozione degli ostacoli che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini».

Sulla decisione della Giunta della XII° legislatura si sono levate inevitabilmente voci critiche dall’opposizione. L’affondo più duro quello di Debora Serracchiani, ex presidente regionale, che senza giri di parole ha ricondotto la decisione alle pressioni del network CitizenGo di Filippo Saverese, noto ai più per l’organizzazione del Bus No-Gender e la promozione dei manifesti su aborto quali causa principale di femminicidi.

«È sconcertante – così l’attuale deputata del Pd – la prontezza con cui Fedriga si fa dettare da fuori l’agenda delle sue delibere. Un mese esatto per aderire alla richiesta che già il 30 aprile scorso gli è arrivata via Twitter da Filippo Savarese, che gli scriveva: Ci aspettiamo l’uscita della Regione dalla #ReteReady controllata dalla Lobby Lgbt! #StopGender.

Questi è il portavoce di Generazione Famiglia e direttore della piattaforma CitizenGo Italia, l’associazione che ha tappezzato Roma dei manifesti con le scritte L’aborto è la prima causa di femminicidio nel mondo. Se questo è uno dei compagni di viaggio o degli ispiratori di Fedriga e della sua Giunta possiamo attenderci quello che già sappiamo: un colpo stridente sul fronte dei diritti civili».

Fedriga ha invece incassato lo scontato plauso panegiristico di Massimo Gandolfini, portavoce del Comitato Difendiamo i nostri figli e organizzatore dell’ultimo Family Day. L’ultraconservatore medico bresciano, che è sotto processo per diffamazione nei riguardi di Arcigay, ha infatti affermato in una nota: «Siamo grati al neo governatore Massimiliano Fedriga per la decisione di ritirare l’adesione della Regione Friuli Venezia Giulia dalla Rete Ready, la rete nazionale delle pubbliche amministrazioni antidiscriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere. Realtà eterodiretta dalle organizzazioni Lgbt e che, di fatto, propugna modelli d’indottrinamento nelle scuole, volti anche a normalizzare pratiche vietate dalla legge italiane come l’utero in affitto e le adozioni gay.

Per educare al rispetto delle diversità le pubbliche amministrazioni devono semplicemente attenersi all’articolo 3 della Costituzione, che sancisce la pari dignità sociale di ogni cittadino a prescindere dall’etnia, dal sesso e dal credo religioso. Non servono le controverse iniziative dal sapore ideologico promosse dalla Rete Ready, che in alcuni comuni hanno creato solo inutili tensioni dopo aver esautorato il ruolo educativo delle famiglie. Né è tanto meno necessario sostenere con patrocini e agevolazioni economiche queste associazioni che promuovono una visione ideologica dell’identità, completamente svincolata dal sesso biologico di nascita».

E Gandolfini, che, dopo gli stracci volati con Adinolfi durante la scorsa campagna elettorale, ha visto l’elezione di un fedelissimo al Senato quale Simone Pillon, ha aggiunto: «Nel rispetto degli accordi presi durante la campagna elettorale, ci auguriamo ora che il governatore Fedriga tenga fede al programma della sua coalizione che mette al centro delle politiche sociali la famiglia naturale. In questo senso potrà contare nella convita collaborazione del popolo del Family Day».

Durissimo, invece, il comunicato congiunto delle associazioni Lgbti regionali che, reso noto dopo le 13:00 di oggi, reca le firme di Yuuki Gaudiuso (Associazione Universitaria Iris), Antonella Nicosia (Arcigay Arcobaleno Trieste Gorizia), Nacho Quintana Vergara (Arcigay Friuli), Angela Cattaneo (Lune), Maria Grazia Sangalli (Rete Lenford).

«A pochi giorni dalla Giornata internazionale contro la lesbo-omo-bi-transfobia dello scorso 17 maggio – si legge in essa -, la Giunta della Regione Friuli Venezia Giulia ha deciso ieri di abbandonare la Rete nazionale delle Pubbliche amministrazioni anti discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere (Rete Re.a.dy), come affermato dall’Assessora al Lavoro, Formazione, Istruzione, Ricerca e Università, Alessia Rosolen.

Le associazioni che firmano il presente comunicato intendono esprimere la loro indignazione per una decisione ideologica, del tutto aliena dalla realtà. Dinanzi alla drammatica situazione italiana in cui le persone Lgbti+ si trovano a vivere, occorrerebbe aumentare gli strumenti di contrasto della discriminazione e non ridurli.

L’indagine, presentata lo scorso 8 aprile, da Amnesty International Gli italiani e le discriminazioni, realizzata in collaborazione con Doxa, ci descrive una realtà preoccupante. Secondo questo studio, il 40,3% delle persone Lgbti+ afferma di essere stato discriminato nel corso della vita, il 24% a scuola o in università mentre il 22% sul posto di lavoro. Una ragazza o un ragazzo su due, tra gli 11 e i 17 anni, ha subito episodi di bullismo e circa il 20% ne è vittima assidua, cioè subisce prepotenze più volte al mese. Secondo i dati Istat, il 22% delle ragazze e dei ragazzi che utilizzano internet e smartphone (oltre il 90%) sono derisi e umiliati in rete. Questa è la realtà che le persone Lgbti+ e soprattutto gli adolescenti si trovano a vivere, come constatiamo quotidianamente attraverso le numerosissime segnalazioni che giungono ai nostri sportelli. Evidentemente le istituzioni e le famiglie non sono in grado da sole di dare risposte risolutive.

Le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale, l’espressione e l’identità di genere, figlie di una tradizione culturale che per essere modificata ha bisogno del lavoro congiunto di tutti i possibili attori sociali al fine di creare un circolo virtuoso di collaborazione e di buone prassi: esattamente quello che negli anni ha fatto la Rete Re.a.dy.

Prima di prendere un’iniziativa tanto incomprensibile quanto affrettata sia l’assesora Rosolen sia gli altri componenti della Giunta Regionale avrebbero dovuto meglio conoscere la realtà di cui parlano, partecipando ad alcune delle numerose iniziative che realizziamo sul territorio. Avrebbero verificato in prima persona quali e quante sono le esperienze negative che hanno vissuto e che vivono gran parte delle persone Lgbti+ (soprattutto adolescenti).

Non si può fare una graduatoria delle discriminazioni: non ci sono discriminazioni peggiori o più comuni di altre. Le ragioni per discriminare spesso si sovrappongono. Eppure solo cercando di riconoscer ogni violenza e discriminazione nella sua specificità, senza approssimazioni generalizzanti, si può elaborare una strategia d’intervento efficace. Il principio di uguaglianza espresso nella nostra Costituzione non ha colore politico ed è un dovere porre in essere politiche antidiscriminazione a prescindere dall’appartenenza partitica.

L’Amministrazione Regionale ha pertanto il dovere costituzionale di garantire il benessere di tutti gli abitanti del territorio.

In questo quadro la decisione di uscire dalla Rete Re.a.dy appare ancor di più incomprensibile e pericolosa, dal momento che chi discrimina e perpetra ogni tipo di violenza nei confronti delle persone Lgbti+ si sentirà ancora più legittimato a perseverare in pratiche aggressive e discriminatorie. Sappiamo, a questo punto, chi sarà il responsabile morale del prossimo attacco violento ai danni delle persone Lgbti+ che la cronaca purtroppo ci racconterà presto».

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