Lo scorso venerdì 24 luglio, presso il Castello ducale di Marigliano (Na), il giovane narratore e attivista Lgbt+ Vincenzo Restivo si è aggiudicato il XX° Premio Napoli Cultural Classic, dedicato alla scrittura e al teatro d’autore per la sezione Narrativa–editi con il suo ultimo romanzo Maregrigio (Editore Officine Milena, Caserta 2020, pp. 159). A pochi anni dal successo letterario de La Santa piccola, Restivo torna a raccontare una contemporanea epopea dei vinti, dando voce a personaggi che interpretano la coralità di uno spazio sociale, antropologico e culturale in cui dominano sopraffazione, solitudine e miseria.
Ambientato nel paesino di Dragona, durante la preparazione di una festività dedicata alla Madonna delle Acque, Maregrigio è la storia di Ezio, di Teresa, di Marisa, di Stefano, di Diego, di Pasquale e di tutti gli umiliati e offesi le cui esistenze, negate o avvilite, si svolgono su un binario morto ai confini del progresso e della civiltà.
Per saperne di più sul suo ultimo lavoro, contattiamo telefonicamente Vincenzo Restivo all’indomani del prestigioso riconoscimento ottenuto.
Vincenzo, quando è nata l’idea di scrivere Maregrigio e perché questo titolo?
Sono stato indotto dal bisogno di simulare il realismo suicidio di Gutiérrez. È stata la necessità di cimentarmi in qualcosa di iperrealista (c’è chi ha definito il testo verista ma solo per il ricorso narrativo all’impersonalità, al distacco empatico). Avevo l’esigenza (già in parte soddisfatta con il mio precedente romanzo La Santa Piccola), di raccontare una realtà difficile facendo ricorso a un coro di personaggi che avevano un unico comun denominatore: il fatto di essere nati in un contesto che spesso li vede vittime e carnefici al tempo stesso. Maregrigio, dunque, perché il grigio è un colore claustrale, opaco, quasi indefinito. Così come claustrale è l’ambientazione e indefinite sono queste vite alla deriva.
Il romanzo è ambientato in una cittadina di provincia ma il nome è di fantasia: Dragona. Tuttavia questo nome sembra alludere a località del territorio Domizio tristemente note per le infiltrazioni camorristiche. Ci racconti qualcosa in più circa Dragona?
Dragona è dove passavo le mie estati da bambino e da adolescente. Spesso quasi costretto, perché l’unica alternativa d’evasione. Avevamo una casa lì, dove ci si stava in venti. Dormivamo in una stanza in cinque tra fratelli e cugini. Ho ricordi piacevoli, ma compromessi dall’impossibilità di adattarmi a quei posti che sapevano troppo di corruzione, dove le alghe morte, per via degli scarichi abusivi, tingevano spesso il mare di porpora e, in alcuni giorni, l’odore era così nauseabondo che stentavi a trattenere conati. Quella del litorale è una storia vecchia, è una storia di remissione e sconfitte. E le mie vacanze erano un po’ così tutto sommato. Ho un rapporto conflittuale con quei posti che, nonostante tutto, mi hanno visto crescere, e mi hanno concesso le prime pulsioni, i primi batticuori, uniti alla violenza delle prime vessazioni omofobe, le violenze verbali, gli isolamenti, i pianti.
Anche in Maregrigio, come nel tuo precedente romanzo La Santa piccola, sullo sfondo di una società degradata e criminale, si staglia l’elemento sacro. In questo caso, la preparazione di una festa dedicata alla Madonna delle Acque. Questa commistione tra sacro e profano, mondo di giù e mondo di su, miseria umana e vocazione metafisica, ha un significato particolare?
Non ho mai creduto alla disgiunzione di queste due realtà. Credo che sacro e profano siano figli dello stesso bisogno, il bisogno di redenzione. Sacralità e scaramanzia hanno, a mio avviso, una ritualistica molto comune e una traduzione davvero molto simile. Si muovono entrambi nella stessa direzione, annaspano con ansia e tremore verso la paura dell’incertezza. È ciò che fanno anche i protagonisti delle mie storie, del resto.
Maregrigio è un affresco drammatico e disincantato di un’umanità degradata e senza riscatto: una sorta di epopea dei vinti 2.0. Tra bullismo, violenza misogina e omofobica, sopraffazione sociale e criminalità organizzata, i personaggi di Dragona sono antieroi senza scampo. Ci presenti, sinteticamente, questa coralità di voci che sono modernissime nelle loro contingenze ma universali nel loro dolore? Possiamo anche dire che sono creature senza tempo (il che spiegherebbe l’assenza di riferimenti espliciti a dispositivi digitali più contemporanei)?
Questo dramma corale ha tanti nomi e tante facce. Sono vite precarie che sopravvivono in questa geometria scorretta. C’è Ezio che è omosessuale e innamorato di un coetaneo che cova un’omofobia troppo violenta, c’è Marisa, una mamma che per sfuggire alla sua vita claustrale, comincia una relazione extraconiugale con un adolescente. Ci sono Stefano e Diego, ragazzini senza una guida, che giocano a fare i grandi col rischio di scottarsi. E c’è Teresa, sedici anni, incastrata in un corpo di donna che non riconosce e costretta, dal padre, a prostituirsi. La sospensione temporale aiuta la narrazione e l’identificazione. È voluta per questo e, da una parte, è anche un omaggio nostalgico agli anni novanta della mia adolescenza.
Come è stato vincere il premio Napoli Cultural Classic?
È un premio arrivato senza preavviso quasi con le stesse modalità in cui arrivò, due anni fa, il Premio Miselli per il mio La Santa piccola. Una sorpresa bellissima. Il premio è giunto quest’anno alla ventesima edizione grazie soprattutto alla passione e alla costanza di un gruppo ben affiatato retto da nomi come l’avvocato Carmine Ardolino a cui devo tutta la mia stima, e ha lo scopo di premiare tutta la letteratura che in qualche modo si è distinta per stile o argomentazioni. È stata una bella esperienza, lì su, al Castello ducale di Maragliano lo scorso 24 luglio. Io sempre con la mia immancabile voce tremante e rotta da un’emozione che non so mai gestire.
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