Qualche giorno prima di piombare nel dramma del lockdown, la casa editrice Rizzoli ha pubblicato il secondo libro della giovane poeta Giovanna Cristina Vivinetto, siracusana di nascita e romana d’adozione, pluripremiata per il suo primo libro, Dolore Minimo, in cui aveva raccontato in versi, primo caso in Italia, la propria transizione sessuale.
Anche in questa raccolta poetica sembra centrale il racconto del cambiamento. Un cambiamento che non concerne solo l’identità di genere ma l’intera e complessa realtà individuale di ogni individuo. In tale prospettiva, la dimensione soggettiva diventa dimensione universale e la voce di Giovanna Cristina Vivinetto interpreta istanze e urgenze dell’intera società.
Per Gaynews riportiamo di seguito l’intervista rilasciata da Vivinetto a Claudio Finelli nell’ambito della programmazione di Poetè Social Edition, ciclo di interviste a tema Lgbt+ (e non solo) in diretta Instagram dall’account Poete_social.
Il titolo del tuo nuovo libro di poesie è Dove non siamo stati. Spiegheresti ai nostri lettori a cosa allude questo titolo?
Ho scelto un titolo suggestivo che potesse evocare luoghi fisici e mentali in cui non siamo stati. La riflessione del libro si articola proprio sul concetto contrario, cioè che tramite i racconti, possiamo essere in tutti quei posti in cui non siamo mai stati. Di conseguenza, noi viviamo nei corpi degli altri, di quelli che ci hanno preceduto e di quelli che verranno dopo di noi, perché noi possiamo raccontare. Noi abbiamo questa grandissima forza che è la forza del racconto. Col racconto, noi ci tramandiamo e la poesia serve proprio a questo. La poesia tramanda origini che, altrimenti, andrebbero disperse. Nelle varie sezioni del libro, si scandisce il dialogo con l’assenza, un’assenza che, a ben vedere, abbiamo sempre abitato.
La prima sezione del libro si intitola La misura dello strappo. Di che strappo si parla?
Tutta la prima sezione di questo libro trae le mosse da Dolore Minimo, il mio primo libro. Se in Dolore Minimo avevo parlato dell’aspetto positivo della transizione sessuale, cioè la mia rinascita, la mia vera nascita, nella prima sezione di questo libro, focalizzo il risvolto della medaglia e faccio i conti con quanto si è rimosso a fatica e che solo a posteriori può essere recuperato perché è importante ed è sempre parte dell’identità.
L’incipit di un componimento contenuto nella prima sezione del libro recita Perché tornare indietro era impossibile…
La prima sezione di Dove non siamo stati si conclude con la consapevolezza che abbiamo dovuto uccidere qualcuno: era una morte inutile eppure inevitabile. Questa cosa riguarda tutti, non solo le persone che cambiano sesso: uccidiamo per poter andar avanti, sono i compromessi della crescita. Un po’ come gli alberi a cui si recidono i rami affinché i tronchi crescano più forti: noi siamo come alberi. Questa cosa riguarda anche me che, sebbene abbia vissuto la transizione come un momento di arricchimento, ho dovuto fare i conti con qualcosa di molto doloroso che ho compreso e metabolizzato solo a posteriori in modo razionale. In questo libro si parla tanto di perdita e di assenza.
Nel tuo libro si parla anche di Alzheimer: perché?
Anche qui si parla di un vissuto con cui sentivo di dover fare i conti. In questo libro c’è un ampiamento del fuoco: se in Dolore Minimo c’è l’esperienza di una persona che cambia sesso, in questo libro si abbraccia la comunità e si parla anche delle storie degli altri. Questa è la storia di una perdita che ho provato a rielaborare in maniera personale e che abbraccia la riflessione sulla parola, sulla perdita della parola e sul dialetto, inteso come lingua che ci definisce e caratterizza. E la storia della perdita di mia nonna paterna che io non vedevo da tanto tempo perché, quando ho lasciato la Sicilia, lei stava ancora bene. La sua malattia, il suo Alzheimer, mi è stata raccontata dai miei genitori quindi è il racconto di un racconto e alcuni passaggi mi hanno colpito profondamente e anche qui ho dato importanza alla parola e al discorso: in questa sezione emerge la presenza del dialetto che è la lingua in cui parlava mia nonna. Le nostre storie e la nostra lingua sopravvivono alla nostra fisicità. Questa considerazione vale per tutti ma soprattutto per chi con le parole ci lavora, cioè gli scrittori. L’Alzheimer è una realtà distantissima da me, per adesso e per fortuna, però attraverso la parola poetica i confini si assottigliano e si arriva a un profondo livello di catarsi e si riesce anche a dire addio alle cose. Io ho metabolizzato in questo modo la perdita di mia nonna, scrivendo e mettendo per iscritto una storia che potesse tramandare la sua importanza grazie alle parole.
Una sezione del libro ha un titolo in dialetto siciliano: Ciuriddia…
Ciuriddia è il nome in dialetto di Floridia, la città in cui sono cresciuta. Il recupero delle proprie parole materne è importantissimo per uno scrittore che si immerge nelle cose. Ho sentito il bisogno di fare i conti con qualcosa che non avevo mai affrontato e che mi faceva anche un po’ paura, cioè il dialetto. Ho dato voce a una realtà che non c’è più. Parlo di storie che mi raccontavano quando ero piccola e quindi anche qui ho dato voce a cose che non ci sono più. È la sezione più corale, emergono le figure del paese, che potremmo definire gli esclusi. È un modo di perdonare anche un luogo da cui ci si sentiva estranei ed è un modo per crescere e andare avanti, acquisendo la consapevolezza che in quel luogo, in cui non saremo più, in realtà ci saremo sempre perché ci siamo sempre stati grazie agli altri e alle storie che ci portiamo dentro e che abbiamo la fortuna di poter raccontare.
Insomma, cambiamento e perdita riguardano tutti…
Certamente, la transizione è qualcosa di molto comune e riguarda tutti e tutti dobbiamo fare i conti con qualcosa che perdiamo. Il significato del libro risiede proprio in questo: imparare a lasciare andare le cose dopo che le abbiamo metabolizzate. La nostra vita è lasciare andare le cose che ci hanno fatto male per crescere e andare avanti. Questo mio secondo libro è stato un banco di prova anche per dire addio a tante cose che mi portavo dentro.
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