20 giovani Lgbt+ senzatetto (14 uomini gay, due uomini bisessuali e quattro donne transgender), ospiti della casa rifugio gestita da Children of the Sun Foundation di Kyengera (periferia di Kampala), sono state arrestate, domenica 29 marzo, per violazione del divieto governativo di assembramento e condotta rischiosa per la salute pubblica.
Componenti della polizia e dell’esercito hanno fatto irruzione nella struttura e picchiato le persone alloggiate, costringendole a fare una «passeggiata della vergogna» attraverso il villaggio fino alla locale caserma di Nkokonjeru. Con loro arrestate, ma poi rilasciate, due persone presenti per motivi medici e un’infermiera che presta servizio nella struttura.
Attualmente nel carcere di Kasabanda fino al 29 aprile, a seguito della chiusura dei tribunali per l’emergenza da Covid-19, rischiano di contrarre il virus in prigione mentre quattro di loro, Hiv-positive, non possono accedere ai farmaci antiretrovirali necessari.
Per questo motivo organizzazioni umanitarie ugandesi ne hanno chiesto l’immediato rilascio. «La detenzione è per loro una minaccia in piena epidemia da Covid-19 – ha dichiarato l’avvocata Patricia Kimera di Human Rights Awareness and Promotion Forum e assistente legale del gruppo arrestato –. È una violazione del diritto alla salute, specialmente per quelli che assumono antiretrovirali e non possono accedervi”. Infatti il divieto governativo di visita in carcere a causa della pandemia ha reso impossibile poter incontrare le 20 persone Lgbt+ arrestate e consegnare i farmaci alle quattro Hiv-positive.
Ma Frank Baine, portavoce del Servizio penitenziario nazionale, ha dichiarato alla Thomas Reuters Foundation che si sta semplicemente rispettando una direttiva presidenziale che vieta ai prigionieri di avere incontri con persone esterne per 30 giorni a partire dal 20 marzo. «I diritti possono venire meno – ha affermato – quando salviamo vite umane. Dobbiamo salvare la nostra gente. Non si tratta di legge ma di vita».
Il primo caso accertato di persona positiva al Covid-19 in Uganda risale al 20 marzo e, secondo gli ultimi dati forniti dal ministero della Salute, sono attualmente 44: nessuno però nelle 259 prigioni del Paese. Il che, come si sa, vuol dire ben poco.
Gruppi per i diritti umani hanno infatti avvertito le autorità ugandesi del rischio di diffusione del virus nelle carceri, come successo in altri Paesi, e hanno chiesto la sospensione delle detenzioni pre-processuali, cui sono sottoposte, ad esempio, le 20 persone Lgbt+.
«Non sia mai una sola persona contagiata nelle carceri del nostro Paese, che sono sovraffollate e hanno cattive strutture – così Nicholas Opiyo, direttore esecutivo di Chapter Four –. Non credo che con tali misure si aiuti la lotta contro la pandemia. Rende solo più difficile e mette a rischio la vita di coloro che sono in prigione».
Esponenti di associazioni Lgbt+ hanno infine affermato che le 20 persone, arrestate il 29 marzo, sono state deliberatamente prese di mira. I rapporti tra persone dello stesso sesso sono puniti con l’ergastolo senza parlare dell’ennesimo tentativo da parte del ministro dell’Etica e dell’Integrità Simon Lokodo, che aveva annunciato, il 10 ottobre, una progetto di legge per introdurre la pena di morte in caso di «atti omosessuali gravi». Progetto di legge, poi ritirato dal governo a seguito delle ferme reazioni di finanziatori internazionali.
Ma il clima omotransfobico in Uganda è particolarmente surriscaldato. Oltre ad attacchi di ogni tipo, nel 2019 ci sono stati tre omicidi di persone Lgbt+. Senza contare la condanna a morte di un attivista il 4 ottobre scorso. Nello stesso mese un rifugiato gay ruandese è stato picchiato a Kampala mentre una donna lesbica è stata violentata dal suo medico.
Sempre in ottobre 16 attivisti sono stati arrestati e accusati di aver avuto rapporti con persone dello stesso sesso dopo che la polizia aveva fatto irruzione nella loro sede associativa, costringendoli poi a sottoporsi a esami anali.
67, infine, le persone arrestate il 12 novembre presso il Ram Bar di Kampala, locale gay-friendly, con l’accusa capestro di disturbo alla pubblica quiete.
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