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Drescher: «L’uso delle diagnosi per stigmatizzare le persone trans è eticamente preoccupante»

INTERVISTA ALLO PSICHIATRA STATUNITENSE, CHE HA COLLABORATO ALLA REDAZIONE DEL DSM-5 E DELL'ICD-11

Cristina Leo by Cristina Leo
22 Settembre 2019
in Salute
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Psichiatra e psicanalista statunitense, Jack Drescher è uno dei massimi esperti mondiali in materia di orientamento sessuale e identità di genere.

Ordinario di psichiatria clinica presso il Columbia University College of Physicians and Surgeons e docente a contratto di psicoterapia e psicoanalisi per il ciclo post-dottorale presso la New York University, è socio dell’American Psychiatric Association (Apa), della Society for the Scientific Study of Sexuality e dell’International Academy of Sex Research.

Il suo nome è soprattutto legato al gruppo di lavoro dell’American Psychiatric Association, come cui componente ha contribuito alla redazione della 5° versione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) in riferimento ai disturbi dell’identità sessuale e di genere. È stato così responsabile della revisione della diagnosi del disturbo dell’identità di genere presente nel DSM-IVTR che ha portato alla definizione  di disforia di genere presente nel DSM-5.

Ma non solo. Perché per conto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) è stato componente del gruppo di lavoro per la nuova classificazione delle malattie sessuali e della salute sessuale all’interno dell’11° revisione dell’International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems (ICD-11), che entrerà in vigore il 1° gennaio 2022.

Drescher e gli altri due specialisti a ciò deputati hanno così definito incongruenza di genere il disaccordo fra genere assegnato alla nascita e identità di genere, facendo sì che la relativa diagnosi fosse posta al di fuori della sezione delle patologie mentali e del comportamento dell’ICD-11 e collocata in nuovo capitolo intitolato Condizioni associate alla salute sessuale.

Transessualità, transessualismo, transgenderismo: si possono ancora usare questi termini per parlare correttamente delle persone trans?

È dificile generalizzare nel discorso delle “etichette di genere.” La comunità trans è cosi differenziata che nessuno, né attivista né professionista, può parlare per tutti. Alcune persone preferiscono transgender, altre transessuale, altre gender non-binary, ecc. A livello individuale è sempre preferibile chiedere al singolo soggetto quale termine preferisca. A livello generale, perà, la letteratura scientifica parla di “transgender.” Basti ad esempio pensare all’International Journal of Transgenderism della World Professional Association for Transgender Health (Wpath), anche se attualmente ci sono purtroppo correnti politiche e di pensiero anti-trans che hanno adottato l’uso del termine “transgenderismo” in maniera dispregiativa, definendolo un’ideologia politica.

È stato difficile il percorso che ha segnato il passaggio da disturbo dell’identità di genere (Dig) a disforia di genere nel DSM-5?

La diagnosi di disforia di genere che ha sostituito quella di disturbo dell’identità di genere è situata ancora nel DSM-5, ossia nel manuale dei “disturbi mentali.” Purtroppo, la necessità di avere una diagnosi per permettere alle/ai pazienti trans di avere accesso ai servizi medici non ne ha consentito la rimozione completa dal DSM-5.

Quello che si è potuto fare al riguardo per ridurre lo stigma e permettere al contempo l’accesso ai servizi medici è stato (1) cambiare il nome, elimiando il termine “disturbo”,(2) separare la disforia di genere dalle diagnosi di disfunzioni sessuali e parafilie, (3) rimuovere l’identificatore dell’orientamento sessuale e (4) restringere i criteri diagnostici per ridurre i falsi positivi e non dare una diagnosi alle persone che non la volevano.

Invece, con l’ICD-11, alla cui redazione ho collaborato (come anche alle precedenti ultime versioni), abbiamo avuto più scelte.  Mentre il Dsm offre sola la scelta binaria (o dentro il manuale o fuori), l’ICD contiene tutte le diagnosi mediche, non solo quelle psichiatriche. Ciò ci ha permesso di poter modificare il termine transsessualismo in incongruenza di genere (gender incongruence o GI).

Ma, cosa più importante, abbiamo avuto la possibilità di spostare la diagnosi di GI dalla sezione dei “disturbi mentali” al nuovo capitolo, condizioni associate alla salute sessuale (Conditions related to sexual health). In questo modo abbiamo diminuito lo stigma della diagnosi e abbiamo mantenuto un codice medico, necessario all’accesso ai servizi.

C’è stato e c’è tutt’ora, a suo parere, ostruzionismo nel mondo accademico e scientifico in merito al percorso di depatologizzazione?

Assolutamente no: né nel processo di redazione al DSM-5 né in quello relativo all’ICD-11.

Si riuscirà ad avere una totale depatologizzazione? E, a suo avviso, come sarà gestita la questione dell’accesso ai servizi sanitari per le persone trans nell’era post-depatologizzazione?

Devo dire che si puo interpretare l’ICD-11 già come una forma di depatologizzazione. L’ICD contiene diagnosi che non sono patologiche. Basti, ad esempio, pensare alla menopausa (GA30) o a un normale parto di un bambino (JB20). Personalmente non ho nulla in contrario a una tale interpretazione della nostra decisione.

Prof. Drescher, cosa pensa di psicologi, psicanalisti, psicoterapeuti e psichiatri che considerano le persone trans affette da una patologia nonostante le linee guida del DSM-5 e dell’ICD-11?

Io sono uno psicoanalista e uno psichiatra nonché uno storico delle “diagnosi queer”. Avendo contribuito alle revisioni del DSM e dell’ICD, credo nell’importanza delle diagnosi. Al contempo ritengo che le diagnosi debbano servire ad aiutare i pazienti; l’uso delle diagnosi per stigmatizzare le persone, specialmente quando fatto da professionisti, è eticamente preoccupante. Nella storia della psichiatria, c’è sempre un aspetto soggettivo nelle diagnosi. Nel XIX° secolo la drapetomania fu una diagnosi inventata da uno psichiatra per descrivere gli schiavi che tentavano ripetutamente di fuggire dalle piantagioni nel sud degli Stati Uniti.

In psicoanalisi, a partire da Freud, gli stereotipi di mascolinità e femminilità sono ubiquitari. Nel volgere del tempoi ci sono sempre stati professionisti che hanno visto il mondo attraverso le lenti conformistiche della sessualità e del genere. Purtroppo anche oggi ci sono professionisti che hanno una comprensione della diversità dell’esperienza umana in materia di sessualità e genere completamente inficiata da teorie dell’800 e del ‘900, da cui sono influenzati.

Come abbiamo visto col processo di depatologizzazione dell’omosessualità, ci vuole tempo per far sì che si affermino nuovi principi corretti nell’ambito professionale. C’è un detto inglese, che tradotto significa “è difficile insegnare a un vecchio cane nuovi trucchi.” Però non è impossibile.

 

Tags: apadrapetomaniadsmicdicd 11jack drescherlgbtpersone lgbtitranstransessualismotransgenderismousa
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